BIUTIFUL

regia Alejandro Gonzalez Inarritu
con Javier Bardem, Maricel Alvarez, Hanaa Bouchaib,
Guillermo Estrella, Eduard Fernandez, Cheikh Ndiaye

sceneggiatura Alejandro Gonzalez Inarritu
fotografia Rodrigo Prieto montaggio Stephen Mirrione
costumi Bina Daigeler, Paco Delgado
scenografia Brigitte Broch, Marina Pozanco
musica Gustavo Santaolalla
produzione Fernando Bovaira, Alejandro Gonzalez Inarritu, Jon Kilik
distribuzione Universal
durata 2h18m

Messico, Spagna 2010                                                              
    
 

La trama: Uxbal è un uomo che vive umilmente in un degradato sobborgo di Barcellona. Dopo che la moglie mentalmente instabile lo ha lasciato, si occupa dei due figli ancora piccoli da solo. Quando scopre di essere gravemente malato, il suo unico pensiero è soltanto per il futuro dei propri bambini che pensa non saranno al sicuro con una madre assente ed inaffidabile. Questa disperazione lo spinge comunque verso un obbligato tentativo di riconciliazione con la moglie.


Il regista: Alejandro Gonzalez Inarritu nasce a Città del Messico nel 1963, studia regia teatrale e cinematografica, lavora come produttore e dj nella più famosa radio rock del Messico, WFM, e produce la colonna sonora di sei film. Nel 1995 dirige il suo primo mediometraggio TV, Detras del dinero, con Miguel Bosè. Amores perros ('00) è il suo primo film e lo impone all'attenzione internazionale, mentre nel 2002 firma uno degli episodi del film collettivo 11 settembre 2001.
Seguono
21 grammi  nel 2003, che è il suo primo film americano, e Babel  nel 2006, con cui vince il premio per la regia a Cannes, il Golden globe come miglior film e ottiene sette candidature all'Oscar.


Il film: Chiude gli occhi al respiro del silenzio. Sussurra le immagini. Sfoga sequenze sorde al soffio del vento, al crepitio della neve sotto i passi, ai corpi in attesa della sua attenzione. Lacrima al pari della sceneggiatura l'occhio di Alejandro Gonzalez Inarritu. Sottrae Biutiful all'empatia dello spettatore con due sequenze iniziali stranianti e solo dopo fa partire una storia che risale al principio di un cinema scarno, con un ritmo funebre che cancella l'ordine metafisico delle precedenti sceneggiature di Guillermo Arriaga.
Biutiful  scorre nella notte. Le parole bruciano in gola agli attori. Le scene in interni impoverite dall'ombra s'inseguono con durezza, gli accordi di Gustavo Santaoalla prendono a pugni il vuoto, mentre i particolari di una miseria affilata deflagrano in situazioni ordinarie. Umano e stanco nonostante il doppiaggio impostato da Roberto Pedicini, Javier Bardem si veste di sofferenza in una Barcellona fatta di malavita di basso livello, bambini soli, prostituzione, contraffazioni cinesi, immigrazione clandestina e malattia. Scorci d'inquadratura sfilano al fianco della sua litania di personaggio condannato, lo prendono alle spalle e definiscono una forma di dolore estesa a tutto quel che copre il suo sguardo.

Inarritu abbandona Biutiful  allo sconforto. Il regista messicano riparte da una sceneggiatura sviluppata in passato e d
à l'impressione di voler rinunciare alla pulizia estetica dei suoi film americani (21 grammi, Babel). Mantiene l'impeto d'improvvise sequenze d'azione (una retata della polizia agli ambulanti africani) ma a premergli è lo sconforto che sta attorno al suo protagonista: un padre malato che cresce due figli piccoli, li protegge dall'instabilità della madre e guadagna sulla pelle dei clandestini.
La morte sospesa su Biutiful  copre i baci (pochi) e sorride ai pianti (tanti, ma tenuti nascosti). Pi
ù problematico è riuscire ad articolare un mosaico di corrispondenze a più voci che renda la storia universale. La rottura con Arriaga pesa soprattutto in termini di confusione della sceneggiatura. Orfano della geometria del caso, il regista getta nella storia troppi elementi e punti di vista. Accanto al personaggio di Bardem ci sono i capi della malavita cinese, gli immigrati, la droga, i pestaggi e la corruzione della polizia. E in questo scenario allargato trovano voce troppi personaggi, si configurano temi appena abbozzati e restano irrisolti intuizioni che avrebbero potuto portare ad almeno un altro paio di film.
Succede, ad esempio, nella cornice circolare della storia.
È un dialogo tra padre e figlia giocato sul primo piano della mano con un anello e trasformato in una finestra spirituale che definisce il senso dell'esistenza. Un'intuizione notevole, ma per giustificarla Inarritu lascia cadere sul film una manciata di scene in cui si allude alla capacità del protagonista di parlare con i morti toccandone i corpi, come avviene in Hereafter  per intenderci. E anche qui, come nel film di Eastwood, è un gesto che perde sacralità, resta irrisolto, definisce un paio di sequenze ridicole (con una donna ancor più potente) e solo in un caso (l'esumazione del corpo del padre) descrive un momento compiutamente commovente.
S
ì, il film cresce visivamente molto in questa seconda parte del racconto, con una scena allucinante in discoteca e l'eco di una missione senza ritorno. Immagini finalmente potenti, risolutive. Spasmi di una sofferenza troppo strascicata, irrisolta nelle curve ripetute più volte dal racconto. Una sofferenza quietata solo nei corpi. Ma quelli, si sa, accettano con inconsapevole fierezza ogni tormento.
                                                                                                                       M.Z.


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