THIS MUST BE THE PLACE

regia Paolo Sorrentino
con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson,
Judd Hirsch, Kerry Condon, Harry Dean Stanton

sceneggiatura Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
fotografia Luca Bigazzi
montaggio Cristiano Travaglioli
scenografia Stefania Cella costumi Karen Patch
musica David Byrne, Will Oldham
produzione Indigo film, Lucky Red
distribuzione Lucky Red
durata 1h58m

Italia, Francia, Irlanda 2011                                                              
    
 

La trama: Cheyenne è una vecchia star della musica rock degli anni ottanta, ormai ritiratosi a
vita privata in una magione principesca a Dublino. Vive non facendo nulla, annoiato e quasi
depresso. Alla morte del padre, con cui non aveva più rapporti da anni, torna negli Stati Uniti,
dove spinto da non si sa bene quale sentimento, decide di continuare la missione del vecchio
genitore nel ritrovare un criminale nazista che da decenni si nasconde in incognito in America.


Il regista: Fra i registi più interessanti della nuova generazione del cinema italiano, Paolo Sorrentino nasce a Napoli nel 1970 e inizia come sceneggiatore televisivo e regista di corti. Con il suo primo lungometraggio L'uomo in più ('01) ottiene un grande successo di pubblico e critica alla Mostra del Cinema di Venezia. Molto amato dal Festival di Cannes, con Le conseguenze dell'amore ('04), cinque David di Donatello, L'amico di famiglia ('06) e Il divo ('08), con cui vince il Premio speciale della giuria, è sempre presente sulla Croisette.


Il film: "Il problema ", dice la pop star cinquantenne che si tiene ancora in testa i capelli alla Robert Smith, "è che passiamo velocemente dall'età in cui diciamo - farò così - a quella in cui diciamo - è andata così -".
C'
è Sean Penn dietro quella cipria applicata su una maschera di stupore infantile. C'è Paolo Sorrentino nel dolly, uno dei tanti del film, che parte dal campo lungo di un cane seduto in giardino con un cono di plastica attorno al collo (simbolo di un personaggio ferito e non più a contatto con il mondo), come nelle inquadrature rattristate e addolcite da movimenti così lenti della macchina da presa da imbrigliare lo sguardo. Tutti e due sono talmente presenti una sequenza dopo l'altra da lasciare il dubbio su chi stia facendo l'attore e chi il regista.
Presentato in concorso a Cannes e nato dalla volont
à di Penn di fare un film con Sorrentino dopo averlo conosciuto alla premiazione de Il divo, This must be the place è il miglior film italiano almeno degli ultimi due anni. Un esordio nel cinema indipendente americano che non si configura come gesto di rottura da parte dell'autore italiano, perché Sorrentino non dimentica da dove viene (uno dei primi dialoghi è sulla violenza della città di Napoli), ma sa fin dove può andare: alla scoperta della provincia americana, con una leggerezza di racconto arricchita dalla complessità del suo linguaggio.
Poi va detto che la sceneggiatura scritta con Umberto Contarello prevede due This must be the place. Il primo
è girato nella malinconia di Dublino e assomiglia ad una commedia surreale gonfia di lacrime trattenute: Cheyenne è una popstar che ha perso la fama ma non il senso di colpa per quel che è stata la sua vita. È un film che parla dell'America e del mito tradito o - peggio - tramontato, del senso perduto delle cose e del ricordo infantile del sogno. Un racconto ricco di sequenze spesso interrotte bruscamente dall'arrivo di un volto, dalla confusione di un particolare straniante che sporca i personaggi con la poesia dei felicemente sconfitti.
"
Forse hai confuso la depressione con la noia", è la battuta che apre il secondo film, più di quella che impone un'evoluzione alla trama: "Mio padre sta morendo di una malattia sconosciuta e sono trent'anni che io non salgo su un aereo". Qui Sorrentino e Contarello introducono un tema inatteso che, da pretesto per trasformare la storia in un road movie, diventa una riflessione sulla dolcezza sensibile della contraddizione umana.
In This must be the place  compare quindi, la parola "Olocausto" e il regista riesce a non servirsene con pedanteria, ma per contestualizzare la decadenza del presente e connotare con un differente sfondo esistenziale i trent'anni di vuoto nella vita del protagonista. Ed
è la musica di David Byrne a fare da sponda alle inquietudini comiche del viaggio nel cuore dell'America sconosciuta. Le sue canzoni danno alla macchina da presa la libertà di alzarsi nei dolly per cambiare il punto di vista su quel che stiamo vedendo, oppure la spinge a sbirciare nelle stanze o dietro le finestre per farci scoprire che quello che conosciamo assomiglia sempre meno ai ricordi. Al punto che l'intero film potrebbe rannicchiarsi in un'unica sequenza da amare senza inibizioni, quella in cui Byrne suona la canzona che dà il titolo al film.
Ma le cose troppo belle non si raccontano, come il dolore non si spiega:
"Qualcosa mi ha disturbato. Non so esattamente cosa... ma qualcosa mi ha disturbato". Lo sai cosa, Cheyenne.
                                                                                                                       M.Z.


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