IN UN MONDO MIGLIORE

regia Susanne Bier
con Mikael Persbrandt, Wil Johnson, Eddy Kimani,
Emily Mulaya, Gabriel Muli, June Waweru

sceneggiatura Andres Thomas Jensen
fotografia Morten Soborg
montaggio Pernille Bech Christensen, Morten Egholm
scenografia Peter Grant costumi Manon Rasmussen
musica Johan Soderqvist
produzione Karen Bentzon, Sisse Graum Jorgensen
distribuzione Teodora Film
durata 1h53m

Danimarca 2010                                                              
    
 

La trama: Christian e Elias sono due giovani adolescenti emarginati e chiusi in loro stessi, derisi spesso dai compagni di scuola. Christian ha vissuto per un periodo a Londra insieme al padre ed ha da poco perso sua madre, mentre Elias sente la mancanza del proprio genitore medico, spesso in missione in Africa. I due giovani si conoscono sui banchi di scuola e spinti anche dalle loro solitudini, si uniscono in un'amicizia che lentamente diventerà estrema e pericolosa.


La regista: Susanne Bier nasce a Copenaghen nel 1960. E' la più conosciuta sceneggiatrice e regista danese fuori dai confini nazionali. Dopo studi in arte e cinematografia si laurea presso la Scuola Nazionale di Cinema danese nel 1987 ed inizia subito la sua carriera nel cinema. E' stata anche allieva di Lars von Trier. Fra le sue dodici pellicole ricordiamo Open hearts ('02) Non desiderare la donna d'altri ('04), Dopo il matrimonio ('06), Noi due sconosciuti ('07), girato in America con Halle Berry e Benicio Del Toro.


Il film: Non sappiamo se il mondo migliore ricercato dalla Bier esista davvero, o avrà mai modo di esistere, quello che sappiamo però è che la regista danese confeziona un'altra pellicola quasi perfetta sotto il punto di vista stilistico, in cui ancora una volta si concentra sul significato di famiglia e del suo ruolo in questo nostro mondo contemporaneo.
Dopo la parentesi americana di Noi due sconosciuti, che malgrado la presenza di due divi entrambi premi Oscar del calibro di Halle Berry e Benicio Del Toro, non aveva convinto fino in fondo, Susanne Bier torna nella natia Danimarca, territorio a lei più consono non tanto per senso di patriottismo o legame alla terra d'origine, quanto piuttosto per le algide atmosfere dei paesaggi, il composto rigore dei suoi personaggi e l'analisi degli intrecci nei rapporti familiari che trovano la giusta collocazione in un'idea di cinema precisa e personale.
Nel suo ultimo film, la cui assonanza alla lingua inglese del titolo originale Haeven, fa pensare subito alla parola paradiso, mentre il suo vero significato è vendetta (In un mondo migliore  è il più convenzionale, buonista e accessibile
titolo internazionale), la Bier crea un secondo piano narrativo che pone come contraltare alla messa in scena danese; l'Africa, madre preistorica di tutte le civiltà, dove nel mondo d'oggi la civiltà sembra essere smarrita, travolta da violenze e brutalità disumane. La violenza di cui la regista ci parla sembra non trovare più barriere in questo mondo moderno, dove valori e principi sono calpestati da edonismo, individualismo e devozione assoluta al proprio io, e scontato si percepisce il parallelismo fra la violenza estrema espressa dalle bande di militari locali sulle popolazioni inermi dell'Africa, e quella che nasce spontanea, urgente, irrefrenabile dall'animo ferito, dolente di un bambino europeo che non riesce a superare un dolore più grande di lui.
Fra questi due mondi così lontani non solo geograficamente ma soprattutto per cultura, tradizione e pensiero, eppur accomunati da una manifestazione della violenza primordiale, quasi istintiva, si pone un uomo, Anton, il padre medico di Elias, con il proprio senso etico, il proprio senso di giustizia, di equità, che cerca di trasmettere integro ai suoi figli, anche a costo di azioni autolesionistiche e paradossali, anche a costo di cozzare irragionevolmente contro situazioni che agli occhi di chiunque apparirebbero perlomeno ingenue come quelle appunto di un bambino.
Ma la famiglia che ci racconta la Bier purtroppo, benché attenta e preoccupata, non riesce ad arginare l'energia violenta dei propri figli, irragionevole, impellente urgenza generata da necessità e mancanze che sembrano non trovare appagamento, figlie dirette di un mondo contemporaneo frenetico, convulso, esasperato e disilluso. Un mondo rassegnato alla violenza, dove l'educazione sembra aver perso qualsiasi essenza, e i valori trasmessi dai padri soccombono all'indifferenza e al distacco.
Esiste un'altra via? C'è un'altra possibilità? Forse il mondo migliore ricercato dalla Bier si troverà un giorno, ma per il momento non ci sono risposte, e il finale fin troppo buonista che dona al suo film, forse metterà d'accordo tanta gente e placherà molti animi scossi, ma tradisce innegabilmente una risoluzione dalle basi fin troppo fragili.
Girato come al solito con la massima cura estetica, In un mondo migliore è un film che colpisce per la fotografia ricercata, per i colori ben calibrati e saturi, per le inquadrature sempre perfette, studiate, mai casuali, anche nei momenti in cui la regista sembra ritrovare la sua vecchia anima Dogma, e si lascia prendere la mano da frenetici, improvvisi scatti di macchina a mano.
La musica inoltre, ipnotica, magnetica di
Johan Soderqvist contribuisce a formare il giusto sodalizio con le immagini.
Presentato in concorso al Festival di Roma 2010, il film ha ricevuto il plauso unanime di pubblico e critica vincendo il premio del pubblico appunto, e il gran premio della Giuria. Dopo l'Europa il film è stato molto apprezzato anche in America dove ha vinto il Golden Globe e l'Oscar come miglior film straniero.
                                                                                                                     V.M.


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